Già dopo pochi minuti trascorsi a bordo dell’idrovolante, mi sono reso conto di stare affrontando un viaggio destinato a proiettarmi molto indietro nel tempo. Sotto di me scorrono i chilometri, prima a decine poi a centinaia; il tutto senza che sulla costa si intraveda mai un qualunque segno di presenza umana. Sto attraversando lo Shelikof Strait, ho un appuntamento lungo 20 anni con i grizzly, sono finalmente in Alaska…
Atterriamo in una laguna dalle acque verdi smeraldo prospiciente la foce di uno dei tanti fiumi che i salmoni annualmente risalgono per la deposizione delle uova.
Sulla spiaggia un orso vaga con passo tranquillo, le aquile dalla testa bianca appollaiate sui rami attendono l’occasione giusta e una foca fa capolino dalla superficie dell’acqua incuriosita dalla nostra presenza; le urie e i pulcinella di mare sfrecciano con il loro sgraziato ma efficacissimo volo. Tutto questo accade nel medesimo istante!!!
Al di là di ogni facile retorica, di fronte alla perfetta armonia che si respira in questo luogo, si è subito pervasi da una pacata serenità. La scansione del tempo rallenta per adeguarsi a un ritmo che non è più il nostro ma che dentro di noi sentiamo esserci proprio. Le nostre menti riescono a trovare ristoro al cospetto di un mondo primordiale che, paradossalmente, riesce a farci comprendere meglio il nostro di mondo, oggi più che mai fatto di una quotidianità prepotente che, assillante, chiede il suo conto inculcando vuote esigenze da soddisfare ad ogni costo. Ho fatto molte migliaia di chilometri in Alaska, ma è solo qui, al Katmay, che ci viene finalmente restituito il nostro passato ancestrale. Certo non nascondo a nessuno e ancora meno a me stesso che si tratta di un luogo in cui la linea che divide la vita dalla morte è sottilissima e in cui quello che a noi pare uno scenario di vita serena, cela a volte lotte, morte e crudeltà: scriveva lo scrittore francese Jean-Claude Izzo che «le albe non sono che l'illusione della bellezza del mondo. Quando il mondo riapre gli occhi la realtà riprende i suoi diritti». Tuttavia pur nella consapevolezza di queste considerazioni, è indubbio che la pace profonda che si avverte in questi luoghi riesce comunque ad essere un segno rivelatore, uno spunto di riflessione.
Alla fine si scende a terra. Dopo un breve cammino, faccio il primo incontro ravvicinato con un’orsa e il suo piccolo, intenti a spellare un salmone rosa. Da quel momento molti orsi mi passano vicinissimo e più volte incrocio lo sguardo glaciale di questi animali. Passo l'intera giornata a fotografare accucciato sulla riva del fiume e stando attento a che dietro di me, nell’erba alta, non spunti qualche “curioso”.
Nei dintorni di Valdez, ai bordi di una strada asfaltata che costeggia la spiaggia, scorgo molti orsi neri appostati dietro i canali di scolo delle acque piovane: i salmoni infatti guidati da un cieco istinto si incanalano in questi rigagnoli che evidentemente credono essere piccoli torrenti.
Dall’altra parte della strada, complice la bassa marea, decine di migliaia di salmoni agonizzanti disegnano sulla spiaggia con il loro stesso corpo uno scenario irreale di morte, in cui il terribile fetore fa da sfondo al gigantesco banchetto degli orsi neri, delle aquile, delle foche e degli immancabili gabbiani. Altri esemplari riescono faticosamente a farsi strada nei rivoli di acqua piovana che solcano la spiaggia: lotta, fatica, groviglio di pesci…. Solo per fare una fine impietosa pochi metri più avanti! L’abbondanza di salmoni è tale che gli orsi si limitano a spremerne la pancia per mangiarne le uova: il resto viene abbandonato sulla riva.
Nell’immaginario collettivo l’Alaska è sinonimo di freddo estremo, di sconfinate distese di neve, di tundra desolata, di orsi o di alci. Poche volte invece si riflette su quello che a me è sembrato essere uno degli spettacoli più impressionanti che la natura ci possa riservare: la risalita dei salmoni. Questi, in un numero incalcolabile, ogni anno, secondo un ritmo stagionale immutabile, risalgono i fiumi scambiando inconsapevolmente la loro morte con la vita di un intero ecosistema. Il fenomeno è di una tale imponenza che solo osservandolo direttamente se ne possono percepire i reali contorni. Io stesso ho visto spiagge piene di migliaia di pesci morti o delle semplici pozzanghere che sembravano ribollire assecondando gli spasimi di un numero inverosimile di pesci, peraltro di notevoli dimensioni.
Il geografo Henry Giannett, che nel 1899 guidò la Harriman Alaska Expedition, ebbe a dire:” Se siete anziani cercate di visitare l’Alaska con ogni mezzo, ma se siete giovani aspettate. I suoi scenari naturali sono così maestosi che visitandoli per primi non riuscireste, poi, a trovare di meglio al mondo”.